Tanto tempo fa ebbi in dono un arco, all’inizio tutto andava bene; percepivo la sua potenza e la sua umiltà, qualche volta ero io che prendevo l’iniziata ma spesso, direi sempre,era lui. Era la corda dell’arco che si stringeva, si allungava ed al momento opportuno faceva scoccare la freccia.
Varie vicissitudini della vita hanno fatto sì che la corda diventasse sempre più rigida e corta così da rendere sempre più difficile far scoccare le frecce, frecce che con il passare del tempo persero la sua funzione e rimasero immobili nella faretra che a lungo andare si coprì di polvere e ragnatele! L’arco ovviamente si fece sempre meno pronto ed efficace ed io, pur di non perderlo, non feci nulla facendo sì che la corda si ripiegasse su se stessa come il mio corpo. Non volendomi distaccare da esso – anche perché ero convinta che quello e solo quello fosse il mio arco – quando dovevo utilizzarlo lo facevo sempre nel rispetto massimo della sua rigidità stando molto attenta a non peggiorare la situazione della corda, accontentandomi del minimo che erano in grado di regalarmi. Ero arrivata al punto di evitare di utilizzarlo rendendo l’arco sempre meno efficace e pronto rendendo sempre più difficile scoccare la freccia. Avevo però la consapevolezza che un arco con la corda rigida e stretta non serviva a nulla e soprattutto non mi lasciava vivere bene.
Non essendo una situazione felice, mi misi alla ricerca di qualcuno che potesse darmi una mano ad aggiustare il mio arco e trovai una bella persona che ci sapeva fare sia con gli archi che con le corde. All’inizio la osservai molto attentamente, non volevo assolutamente che rompesse il nostro equilibrio.
La bella persona fu molto chiara, precisa e molto cortese e mi fece una proposta che all’inizio mi spiazzò; mi suggerì semplicemente di lasciare libero l’arco di lavorare da sé perché solo in questo modo la corda sarebbe ritornata alla giusta misura il che mi avrebbe permesso spolverare le frecce e scoccarle. Per carattere non rifiutai la proposta anche perché, altrimenti, non avrebbe avuto nessun senso cercarla e la prova sul “tappeto” fu decisiva. Io e il mio arco salimmo sul tappeto con in mano il libro “Lo Zen e il tiro con l’arco” di Eugen Herrigel, uno di quei libri che avevo letto e riletto e che quindi aveva un posto privilegiato nella biblioteca di casa insieme a “Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta” di Robert M. Pirsig. Appena salita mi preoccupai subito di costruirmi un recinto così che nessun altro potesse interferire con me e il mio arco in quel momento. Ero però felice di fare questa prova perché, anche razionalmente avevo capito che quella era la strada per curare me e il mio arco, nella consapevolezza che io e il mio arco avevamo bisogno di tempo, di calma, di pazienza, di calore e, cosa non di poco conto, io dovevo liberare il mio arco dalla prigione nella quale l’avevo relegato pensando, stupidamente, di fare bene. Sul tappeto, all’inizio un mio tappeto di yoga poi il tappeto (in questo caso gli articoli fanno la differenza!) nessuno sarebbe salito quando c’ero io perché nessuno poteva fare il lavoro che avrei dovuto fare io; semplicemente, si fa per dire, io dovevo percepire e ascoltare ogni parte del mio corpo, pensare insieme al mio corpo e muovermi in certo modo piuttosto che in un altro. Ma soprattutto dovevo convincermi che la corda aspettava solo me per allungarsi e per questo le dovevo fare spazio e solo io armonicamente potevo farlo.
All’inizio non fu facile per niente, era così consolidato il nostro sodalizio che tutto in me si rifiutava di essere modificato e questo si ripercuoteva in aumento di dolori, febbri, disagio fisico e mentale. E tutto questo perché all’inizio in modo del tutto inconsapevole mi rifiutavo di pensare che dovevo lasciare l’arco e la corda liberi di fare ciò per il quale sono stati creati: respirare e portare il respiro in giro, a spasso, lungo tutto il mio corpo. Presto però ho scoperto che la corda si allungava da sola e quindi il mio respiro andava “in su e in giù” lungo tutto il mio corpo senza che io facessi nulla se non essere felice (ricordo ancora la felicità che provai la prima volta!). Io non facevo nulla se non lasciar lavorare l’arco e la corda, assaporare questo stato ed essere felice! E la bella persona che faceva? Godeva con noi, era al nostro fianco anche se fuori dal tappeto – anche se ora potrebbe entrarci chiunque – facendomi comprendere che né l’arco né la corda mi avevano lasciato per un solo istante! Che sensazione eccezionale quando ho toccato con mano che il mio respiro non mi aveva mai abbandonato e che non mi abbandonerà mai, che insieme possiamo fare cose grandi, che può inebriarmi tutta e che ora il corpo mi chiede ed è pronto per il canto. Quando me lo sentii dire quasi quasi mi commossi!!!
E tutto questo è stato fatto senza che questa bella persona dettasse tempi, imponesse posture; lei è stata semplicemente una compagna di viaggio, incoraggiandomi quando il percorso si faceva difficile, pazientando per i miei tempi a volte “lunghini”,sdrammatizzando al momento opportuno e rimanendo fedele in ogni momento. Ora sono convinta che posso prendere le frecce, una alla volta e lavorare per centrare l’obiettivo. Quale? Dove? Ancora non lo so, ma di sicuro desidero lanciarle lontano. Le prime volte cadranno ai miei piedi ma non importa perché noi non abbiamo fretta … l’arco sta guarendo, la corda si sta allungando e sono io che lo sto facendo guarire perché lascio fare loro. E tutto questo perché ho trovato un’amica che mi guida stimolandomi a trovare le mie risposte per fare sempre meglio.
Grazie Elisa!
Ps_1. ora sto attraversando un altro periodo non bello per problemi di salute; a livello fisico però lo sto vivendo in modo diverso, ho con me l’arco e la sua corda pronti a scoccare le frecce che nel frattempo ho avuto modo di togliere loro le ragnatele e spolverarle bene bene!!!
ps_2. Il recinto che aveva costruito intorno a me sul tappeto crollò quando io ad un certo punto caddi nel tappeto, vero momento di passaggio
Vanna Pellegrini, 28 gennaio 2024



